Economia circolare e sviluppo sostenibile

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Sebbene questi termini siano ormai entrati nel lessico comune, e le definizioni più ampie e generiche dei termini siano note ai più, c’è ancora una certa difficoltà nel trasformare questi principi in azioni e attività concrete, che le aziende possano applicare ai propri processi e prodotti. Partendo dal principio, cosa intendiamo quando parliamo di economia circolare e sviluppo sostenibile?

Per il primo termine, economia circolare, dobbiamo risalire agli anni ’70 del secolo scorso quando per la prima volta fu proposto un modello economico che prevedesse il riuso dei materiali con il duplice scopo di aumentare posti di lavoro nella filiera del recupero e ridurre i rifiuti generati dai processi produttivi. È solo dagli anni ’10 del nuovo millennio che il termine è entrato con maggiore insistenza nelle teorie economiche e nelle politiche nazionali dei Paesi Occidentali, a causa delle sempre crescenti preoccupazioni inerenti il clima e l’ambiente da una parte, e l’accesso e disponibilità di materie prime dall’altra. La Ellen MacArthur Foundation ne dà una precisa definizione:

«[…] un termine generico per definire un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera».

L’economia circolare è dunque un nuovo sistema economico, contrapposto al concetto di economia lineare, basato sul riutilizzo dei materiali in successivi cicli produttivi, riducendo al massimo gli sprechi ed i rifiuti non riutilizzabili.

Con il termine sviluppo sostenibile si intende in generale uno sviluppo “ambientalmente” sostenibile, cioè una situazione per la quale lo sviluppo presente ed il soddisfacimento dei bisogni attuali non pregiudichino le possibilità di sviluppo delle generazioni future. Anche in questo caso i primi dibattiti e riflessioni sul tema risalgono agli anni ’70 del secolo scorso, anche grazie alla pubblicazione nel 1972 del rapporto sui “Limiti dello sviluppo”, commissionato dal Club di Roma ad alcuni ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT). Il dibattito sulle problematiche legate alla crescita produttiva illimitata ed al consumo (ed esaurimento) di materie prime non rinnovabili (dai combustibili fossili a scendere) innescò una serie di studi, ricerche e azioni politiche che portarono alla definizione condivisa elaborata dalla Commissione mondiale sull'ambiente e lo sviluppo, e contenuta nel rapporto Brundtland del 1987:

«Lo sviluppo sostenibile, lungi dall'essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali»

Non è quindi difficile intuire come economia circolare e sviluppo sostenibile siano termini spesso usati in congiunzione tra di loro. Lo sviluppo sostenibile individua la necessità di un cambiamento mirato ad un uso più oculato delle risorse e ad un’attenzione al futuro, e l’economia circolare indica una risposta a questa necessità.

Economia Circolare e sviluppo sostenibile in Azienda

Ma in che modo economia circolare e sviluppo sostenibile possono essere applicate nei processi produttivi aziendali? Quali sono gli obiettivi che le aziende si possono porre per andare incontro a questi principi?

Un primo spunto di riflessione riguarda i rifiuti industriali. In questo caso ci viene in aiuto la Gerarchia dei Rifiuti dell’UE (Direttiva 2008/98/CE), che al vertice della piramide mette appunto la Riduzione, cioè evitare o minimizzare la produzione di rifiuti generati, in questo caso, dai processi produttivi. Tale pratica è ampiamente diffusa all’interno delle realtà aziendali, soprattutto dove la gestione e lo smaltimento dei rifiuti industriali – specialmente nel caso di rifiuti pericolosi – rappresenti un costo non indifferente. La riduzione della produzione dei rifiuti (e degli scarti, dovuti per esempio a non conformità) si ottiene anche, per esempio, attraverso l’ottimizzazione dei processi produttivi, con il controllo qualità nelle varie fasi del processo e con un monitoraggio (digitale e possibilmente real-time) dei parametri di processo.

Laddove non sia possibile ridurre la quantità di rifiuti si potrà pensare al Riutilizzo dei materiali di scarto prima che essi diventino rifiuto. Per esempio, il cosiddetto riciclo primario nell’ambito dei polimeri, dove sfridi o scarti di lavorazione, omogenei e non contaminati, vengono riutilizzati tal quali o in taglio al polimero vergine all’interno del processo stesso. Se il materiale di scarto non è reimpiegabile nel processo aziendale si possono attivare strategie di simbiosi industriale, dove quello che è uno scarto della produzione per un’azienda può invece essere una risorsa (alternativa a materiali vergini) per un’altra. Esistono aziende che facilitano l’incontro tra domanda e offerta di questo tipo di scarti, come ad esempio Sfridoo.

Scendendo lungo la gerarchia, troviamo poi il Riciclo, quindi la differenziazione degli scarti prodotti per conferirli alle filiere di recupero. Non sempre le aziende sono attente a questi aspetti direttamente in entro le mura aziendali, raccogliendo i rifiuti in maniera indifferenziata e demandando ad aziende specializzata la raccolta e separazione dei rifiuti. Solo in ultima istanza e laddove non ci sia altra alternativa, i rifiuti prodotti dovrebbero andare alla termovalorizzazione o al conferimento in discarica.

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